Prima dei microfoni: il belting

Oggi la rubrica è specialmente dedicata ai cantanti: Lorenzo Pullara (con un piccolo contributo della sua insegnante Elvira Caobelli) ci spiega la tecnica del belting, la sua storia e il suo utilizzo.

Tante informazioni interessanti, che ci fanno capire come nulla nasca dal caso. E, in conclusione, uno spunto di discussione, che invito il lettore a cogliere fornendo il proprio punto di vista.

Cantanti, fatevi sotto!

Lucia Corona Piu

 


Prima dei microfoni: il belting
di Lorenzo Pullara

Per cantare più forte possiamo fare un milione di cose, come farci schiacciare un piede al momento del Do di petto; simulare uno spavento da film dell’orrore poco prima del ritornello; o più semplicemente avere dei figli per allenare la resistenza vocale che tornerà utile nei concerti un po’ più lunghi.

Fa molto commedia vecchia scuola, vero? Ed è proprio lì che andremo a parare, in quella fetta di rappresentazione musicale che ha basato la sua forza comunicativa tramite ‘l’accordo’ musica-teatro. Nello specifico ci catapulteremo a Broadway, dove la necessità ha portato allo sviluppo di una tecnica che ne ha caratterizzato il sound: il belting.

Come nella maggior parte dei casi, quando si cerca di comprendere un determinato concetto, sono le parole, con la loro storia, a svelarci i migliori segreti; è infatti da qui che voglio partire.

Che cosa significa belting?

Prendendo come riferimento la radice della parola (belt), il vocabolario dà una serie di significati più o meno utili. I primi che troviamo sono ad esempio cintura, cinghia, nastro trasportatore, legare; tutti termini che ci fanno rimanere in alto mare. Ma subito dopo arrivano termini che ci fanno avvicinare velocemente alla riva: come colpo, colpire con forza, fino a riferirsi ad un linguaggio più sonoro come risuonare e rimbombare.

Ecco l’approdo. Il belting è una tecnica di canto che consente di generare ed emettere un suono molto potente e di grande intensità drammatica. Ma per capire il belting bisogna sapere com’era il canto prima, ai concerti prima dei microfoni.

La storia del belting è all’apparenza molto breve. Nonostante fondi le sue radici nella musica folk bianca americana ottocentesca (proveniente dall’Europa), viene riconosciuta soltanto nel secolo scorso in un periodo ed un contesto ben definito: Broadway, inizio Novecento. Cominciano a sbucare i primi teatri con Union Square come centro di gravità. In circa vent’anni i teatri si moltiplicano fino ad arrivare perfino a Times Square, e si assiste al rapido consolidamento e sviluppo di una determinata rappresentazione artistica cominciata a fine Ottocento: il Musical, una tipologia di spettacolo che coniugava, come già accennato prima, il teatro con la musica.

Diretta conseguenza di ciò era la presenza di un ensemble di musicisti che accompagnassero le transizioni, i dialoghi e le canzoni. Dato il periodo storico, sappiamo che a quei tempi gli spettacoli erano privi di amplificazione. Quella elettrica non era affatto pensabile. Si dovette, quindi, sfruttare al meglio l’amplificazione degli strumenti stessi e, se con quelli tradizionali per aumentarne il volume bastava aumentarne il numero, i cantanti solisti dovettero sviluppare una tecnica che permettesse loro di emergere e risaltare sul volume dell’orchestra. Un’esigenza simile a quella che per qualche secolo in più hanno avuto i cantanti lirici, che hanno costruito la tecnica del ‘bel canto’ su una base molto pratica: tutti ci devono sentire. 

Il belting è a livello concettuale la stessa cosa, con qualche secolo in meno e con un approccio alla tecnica, alle sonorità e al modo di comunicare più moderno.

Due mondi a confronto, quindi: Musical e Lirica; in questa loro fondamentale similitudine.
Poi i microfoni, i teatri e il pubblico.

Nel libro ”Contro la perfezione. L’etica nell’età dell’ingegneria genetica” del filosofo Michael J. Sandel si cita il pensiero del critico del New York Times Anthony Tommasini, che valuta alcuni aspetti dell’evoluzione tecnologica nel campo dell’amplificazione. Ve la riporto di seguito:

“Nei suoi primi, vibranti decenni la commedia musicale di Broadway era un genere salubremente colto, in cui le parole intelligenti si intrecciavano in modi ingegnosi con musiche vivaci e sgargianti o dolcemente malinconiche. In ogni caso, era essenzialmente una forma d’arte guidata dalla parola […] Ma, come era inevitabile, da quando l’amplificazione si è impadronita di Broadway il pubblico si è fatto distratto, passivo. A sua volta ha portato a cambiamenti in tutti gli aspetti della commedia musicale, dai testi (che sono diventati meno sottili e complessi) agli argomenti, allo stile musicale (in cui più grande, appariscente e pretenzioso è diventato sinonimo di migliore)”.

Un pensiero che si riassume con un’involuzione del valore artistico delle opere in funzione di un’appariscenza che mira solo alla vendita del biglietto: un po’ come la grossa fetta del pop di oggi. Un pensiero forte ed allo stesso tempo rischioso. L’amplificazione, lo sappiamo, non è Satana, ci ha permesso moltissime altre cose belle.

Ma quindi, con l’arrivo dei microfoni, che fine fa il belting?

Naturalmente a Broadway non hanno smesso di cantare nel modo che li caratterizzava, ma è semplicemente cambiata la prospettiva con cui lo si guarda. Non è più una necessità, ma una tecnica che permette un determinato effetto artistico.

Ma come fare a superare in decibel il volume di un’orchestra, allora?

Potremo risparmiarci piedi schiacciati e spaventi sostituendoli ad una soluzione più salubre e sensata come l’apprendimento della tecnica stessa. Per essere appreso, il belting presuppone che il cantante non sia proprio alle prime armi. Requisiti importanti sono ad esempio un buon uso del diaframma, il controllo del flusso di aria emesso ed una buona tecnica vocale in generale.

Possiamo distinguerlo a grandi linee in due tipologie: belting con voce di petto e belting in voce di testa.

Il meccanismo che sta alla base è quello di indirizzare il suono, ben in pressione, verso l’alto, facendolo risuonare il più possibile nelle zone delle cavità nasali. Per ottenere la voce in belting si utilizzano principalmente due tecniche assieme, il Vocal Fry e il Cry.

Il Vocal Fry è un tipo di suono che, come dice il nome, fa “friggere” le corde vocali. È praticamente il suono che facciamo tutti il mattino appena ci alziamo dal letto e facciamo una specie di timido sbadiglio, il suono più debole che le nostre corde vocali riescono ad emettere, quindi utilizzare questo tipo di tecnica come attaccato del suono per produrre un suono in belting è la cosa migliore.

Si sussegue a questo attacco il vero e proprio belting, una tecnica che va a diminuire lo spazio in cui l’aria può passare, causando così più pressione e di conseguenza dando più volume al suono che emettiamo. Per esercitarsi a fare questo tipo di suono si può provare a cercare di emulare il pianto di un bambino, sganciando la mandibola mantenendo un bel sorriso e la laringe rilassata.

Per distinguere i due tipi pensate al belting di petto come ad un acuto della grandissima Whitney Huston, mentre per il belting di testa come riferimento potete tenere Beyoncé o Ariana Grande.

Ma cosa ne pensano gli esperti? Il mondo degli intellettuali (ormai si può dire) della laringe si divide in due schiere.

Una parte, che è anche quella dei conservatori accaniti, sostiene che il belting sia soltanto una soluzione deleteria che permette di avere più volume e potenza, a discapito del ‘bel canto’ che si ostinano a proteggere; che sia sempre deleteria per la voce, arrivando fino ai finali più drammatici come disfonia o peggio, afonia. In più, lo giudicano addirittura sgradevole all’orecchio. Per capirci, sono quelli che da un secolo non ascoltano musica nuova, non ne riconoscono il valore e non sono aperti ad una contaminazione positiva.

La seconda fazione è di quelli che si posizionano all’esatto opposto: belting come se piovesse (per capirci).

Poi ci sono le persone normali che si trovano nel mezzo, che decidono di non fare i radicali e che giudicano la tecnica del belting per quella che oggi è (avendo microfoni e amplificazioni): una sfumatura; un colore da usare quando il brano o l’interprete lo richiede, tutto ai fini della cosa più importante: l’emozione, che è veicolata dalla comunicazione, in questo caso della voce. Nient’altro di più che un’ulteriore freccia al proprio arco che amplifica le potenzialità espressive del cantante in questione.

Certo è che la tecnica del belting, se utilizzata troppo spesso, per quanto eseguita correttamente, porta più sforzo alle corde vocali rispetto alle tecniche di canto più tradizionali. Ma è un tipo di vocalità che, se imparata in modo approfondito, non può fare altro che impressionare.

Se di controindicazioni ne devo trovare una, questa risiede principalmente nell’abuso della tecnica stessa. Il rischio, infatti, è che un ipotetico cantante la consideri come un comodo escamotage per raggiungere un determinato effetto artistico preconfezionato, facendolo diventare, il più delle volte, un proprio cliché che alla lunga rischia di limitare lo sviluppo di altri linguaggi che favorirebbero una positiva varietà artistica.

Sono tanti, infatti, i cantanti che cascano in questo tranello; che confondono i propri vizi con virtù. E alla fine approfittano della tecnica (belting o chi per essa) per trasmettere un determinato effetto sempre. Perché “fa fico”. Perché a primo impatto l’ascoltatore medio ne viene piacevolmente colpito o, più spesso, perché non sa cantare in altra maniera.

Tutti casi che contribuiscono ad accrescere lo spessore della linea che scinde il cantante amatoriale da quello professionista.